Torino, 12-13
dicembre 2003
8° Convegno Nazionale
“Informatica, Didattica e Disabilità”
Silvio Arrigo
MERCIAI e Beatrice CANNELLA
“Sull’insicurezza…”[1]
Giusto due settimane fa, mentre
Beatrice Cannella ed io stavamo preparando la traccia di questa relazione, uno
dei nostri figli, ventiduenne, all’uscita dalla Biblioteca Universitaria in cui
aveva passato la giornata, verso le sei del pomeriggio è stato aggredito in una
strada del centro, rapinato, sequestrato per una ventina di minuti e fortemente
intimidito. Ci ha telefonato, siamo andati a prenderlo e per un paio d’ore
abbiamo cercato di gestire con lui la comprensibile paura per l’episodio occorso
- molto brutto - domandandoci ripetutamente se avevamo fatto tutto il possibile,
negli anni della sua educazione, per fornirgli gli strumenti indispensabili per
affrontare il mondo, per ‘imparare ad attraversare la strada da solo’, come suol
dirsi. Lo abbiamo convinto a fare denuncia - era stato intimidito a non farlo –
e, uscendo dall’infelice esperienza con le forze dell’ordine, ci sono tornate in
mente la parole di Luciano Violante che un paio di anni fa, in un convegno sulla
sicurezza, diceva
Il cittadino ha tre principali
insicurezze. Quella che deriva dalla forza del grande crimine organizzato,
quella che deriva dagli attacchi della criminalità diffusa e quella che deriva
dall'atteggiamento delle pubbliche istituzioni (polizia, carabinieri,
magistratura) nei suoi confronti. La strategia deve rispondere a queste tre
preoccupazioni .
Alla terza si risponde con un
organizzazione di alcuni uffici di polizia e giudiziari più vicina alle esigenze
del cittadino. Chi raccoglie le denunce, specie se per atti di piccola
criminalità, non sempre è stato educato
a comprendere che il fatto denunciato, anche se scarsamente rilevante
dal punto di vista oggettivo, può apparire molto importante per quella persona e
che quella persona ricaverà e trasmetterà un'immagine delle pubbliche
istituzioni dipendente dal modo in cui è stata trattata in quella singola,
specifica occasione. Se il ritorno è positivo, quella persona non solo
trasmetterà nell'ambiente in cui vive questa sua sensazione, ma sarà un
importante tramite sociale della fiducia dei cittadini nello Stato. In alcune
città più grandi si potrebbe sperimentare la possibilità di raccogliere in casi
determinati la denuncia o la testimonianza di persone anziane o ammalate presso
la loro abitazione. In alcuni uffici giudiziari si potrebbero istituire
efficienti e cortesi servizi di informazione del
pubblico.
Ci serve, questa premessa, perché
ci avvicina immediatamente al tema della sicurezza. Pensiamo che il problema
della sicurezza su Internet sia semplicemente un caso particolare del problema
generale della sicurezza dei nostri figli, dei ragazzi in genere, e di noi
stessi in qualche modo. Certamente Internet è non solo un mondo, ma un grande
mondo, rapidamente, immediatamente, e se volete, pericolosamente accessibile. Ma
anche qui occorre fare in modo che i nostri ragazzi imparino ad ‘attraversare la
strada da soli’. Non pensiamo che la sicurezza su Internet debba essere
affrontato come un problema con caratteristiche specifiche e peculiari.
Nell’ultima edizione di questa manifestazione, le relazioni di Tartara, di
Marchisio, di De Jaco e di Guastavigna, si sono, tra le altre, orientate
esattamente in questa direzione che sposiamo. E questa è anche la direzione di
un documento che riteniamo molto ben fatto e molto istruttivo che è il rapporto
EURISPES del 2001[2] (I providers e i diritti dei minori), e di
una recentissima indagine intitolata UK
Children Go Online, (I ragazzi
inglesi vanno in rete), del 2003, che è ricca di spunti e di
osservazioni intelligenti e che è naturalmente reperibile su Internet[3].
Certo occorre prendere precauzioni
- come facciamo nella vita di tutti i giorni. Fra queste, quella dei filtri non
è forse la migliore, perché suscita sicuramente perlomeno il fantasma della
censura e il fantasma della sfiducia: ma potremo invece avere qualche speranza
che funzionino, per esempio, i codici di autoregolamentazione - e qui facciamo
riferimento in particolare ad uno dei progetti della Comunità Europea intitolato
Safer Internet Action Plan
nell’ambito delle eEurope 2005 Security
Policies[4],
un piano d’azione per un’Internet più sicura, o al recente codice di
autoregolamentazione Internet e minori
assunto in Italia il 19 novembre del 2003, recentissimo dunque. Non
ci facciamo molte illusioni sui codici di autoregolamentazione, ma pensiamo che
comunque possano essere una via di accesso migliore che quella dei
filtri.
Detto però che il problema della
sicurezza su internet è un caso particolare del problema generale della
sicurezza, non possiamo che domandarci, evidentemente, che cos’è e come sorge la
sicurezza, e provare a dare dal nostro specifico ambito disciplinare una
possibile risposta. La sicurezza è sicuramente uno dei sentimenti di fondo, un
background feeling, che
accompagna la nostra esistenza o che sperabilmente accompagna la nostra
esistenza. È difficile definirla esattamente, ma pensiamo che una via di accesso
potrebbe essere quella di pensare che la sicurezza ha a che fare con una
corretta percezione della paura - corretta nel senso che la paura non ci
travalica e non ci sopraffa - e con una sana gestione dei nostri bisogni di
dipendenza, cioè del bisogno che costantemente abbiamo, in qualsiasi circostanza
della vita, di fare ricorso all’aiuto degli altri.
Fare ricorso all’aiuto degli altri
è la prima esperienza, la primissima e la più fondamentale che facciamo appena
nati. Ci tocca in sorte, come piccoli della specie umana, di nascere in pericolo
di vita e di permanere in pericolo di vita per un bel po’ di tempo, in una
condizione di necessità assoluta e immediata di qualcuno che ci aiuti: a
sopravvivere prima e a vivere poi. È per questo che in qualche modo la storia
evolutiva ci ha dotato di un meccanismo che fin dall’inizio, e in modo mirabile,
ci spinge a cercare una figura di accudimento: è una delle poche cose che ci
sono state messe nel codice genetico, l’immediata ricerca di una figura che si
occupi di noi e che ci aiuti. Durante il corso del primo anno di vita e
significativamente del secondo semestre dello stesso, il bambino umano compie
l’importante e ripetuta esperienza che va ormai sotto il nome di attaccamento. La sua ricerca è in qualche
modo la dialettica di una relazione, con la o le figure di accudimento, la madre
in generale, ma non soltanto. È un meccanismo innato che lo spinge e che
funziona essenzialmente attraverso una serie di percezioni tattili, vocali, in
qualche modo legate al calore, alla temperatura, alla vista, che lo spingono a
cercare di elicitare risposte della figura di
accudimento.
Che cosa impara il bambino? Impara
qualche cosa che si iscriverà profondamente nella sua storia evolutiva, cioè
impara che cosa succede quando si ha bisogno, impara da un lato come chiedere il
bisogno e dall’altro che tipo di risposta la figura di accudimento gli fornisce.
Si costruisce, in questo modo, nella sua stessa struttura neurologica,
nell’organizzazione in qualche modo dei suoi circuiti cerebrali, quello che
viene chiamato il modello
operativo interno. È un modello molto semplice,
all’inizio schematico, in cui sono contenute fondamentalmente (per quello che
oggi riteniamo di sapere) due tipi di immagini, quella del bambino che chiede e
quella della figura di accudimento che gli risponde. Ma quello che caratterizza
fondamentalmente questo modello operativo interno è che questo modello è
completamente inconscio e sarà profondamente radicato nei sistemi strutturali
che vanno formando la personalità del piccolo bambino. Certo il sistema
dell’attaccamento, questo prototipo, viene poi arricchito, modulato,
sufficientemente plasmato nel corso di una lunghissima fase evolutiva - non si
dimentichi che la struttura cerebrale completa definitivamente la sua
organizzazione di maturità neurologica solo verso la fine del secondo decennio
di vita - ma quello che viene creato in questa primissima fase di imprinting del piccolo bambino è una
specie di filtro pregiudiziale attraverso il quale egli guarderà
continuativamente e inconsapevolmente le sue esperienze. Dunque, quello che oggi
noi sappiamo è che la prima cosa che cerchiamo di imparare è come sentirci
sicuri nel mondo e che impariamo che sicurezza significa in qualche modo la
nostra capacità di poter contare in modo saldo, sufficientemente rasserenante,
securizzante e, per l’appunto, felice su una risposta pronta, adeguata e sintona
dell’altro. Di quell’altro che, pian piano ci accompagnerà ad attraversare la
strada e poi pian piano ci lascerà attraversare da soli, gestendo la paura e
l’angoscia che è legata al nostro essere per la prima volta in mezzo alla
strada, con tutti i pericoli che questo implica.
Sappiamo ormai moltissime cose su
questo periodo dell’attaccamento, sul quale convergono in modo estremamente
fecondo per la psicoanalisi contemporanea, le ricerche delle neuroscienze,
dell’etologia, della psicoanalisi stessa e dell’osservazione del bambino.
Abbiamo descritto numerose tipologie su come questo incontro accada e sappiamo,
per esempio, che se una quota considerevole di bambini stimata nella nostra
società occidentale intorno al sessanta per cento costruisce un atteggiamento
sicuro, allo stesso modo sappiamo che una fetta significativa, il rimanente
quaranta per cento, costituisce un attaccamento insicuro o addirittura
disorganizzato.
Che cos’è un atteggiamento sicuro?
Quello in cui il bambino esperisce, impara e si mette dentro la sicurezza che
nella condizione del bisogno e della difficoltà è possibile, e non è vergognoso,
chiedere un aiuto ed è possibile ed è realistico ricevere una risposta
sufficientemente pronta e sufficientemente comprensiva. Una risposta che
contenga la paura e che aiuti in qualche modo il bambino a pensare, nel senso
lato di questo termine, a come affrontare e fare i conti con il suo problema,
con quello che lo sta preoccupandolo in quel momento. Insicura, invece, è la
tipologia dell’attaccamento di cui il bambino fa esperienza quando la risposta
dell’adulto non gli offre adeguatamente questo tipo di rassicurazione. Il
bambino impara, per esempio, in una serie di casi, a evitare la richiesta
dell’adulto: sono i bambini che imparano a fare da soli o che sono costretti a
imparare a fare da soli o che imparano che la risposta dell’adulto è fortemente
conflittuale, spesso intrisa di sentimenti di rabbia, di stanchezza o di rifiuto
ed interiorizzano così una modalità resistente o ambivalente (come si dice in
gergo) per cui la richiesta è fatta ma in modo complesso e spesso tale da
elicitare nell’adulto una risposta negativa o rifiutante. Una percentuale ancora
di bambini struttura un atteggiamento disorganizzato, sono quelli in cui la
figura di accudimento ha una risposta tendenzialmente bizzarra e imprevedibile:
il bambino impara che non c’è possibilità di fidarsi, che la richiesta di aiuto
è spesso colpevolizzata o svergognante e che comunque le risposte sono
apparentemente casuali per cui non ci si può far conto, perché l’imprevedibilità
è assolutamente nemica di una qualsiasi fantasia di
sicurezza.
Sia chiaro, la risposta della
figura di accudimento, di cui stiamo parlando, è fondamentalmente una risposta
inconscia, se volete non colpevole, è una risposta fatta di atteggiamenti
mimici, di atteggiamenti posturali, di modalità di contatto, di tocco, di
tonalità del suono della voce. L’adulto può avere la migliore intenzione di
cercare, nonostante la sua stanchezza o le sue difficoltà esistenziali del
momento, di rispondere in modo contenitivo, affettuoso, rassicurante nei
confronti del bambino, ma ciò non toglie che può passare un messaggio che per
l’appunto non è per nulla securizzante nei suoi confronti. Tutta la bellezza e,
fondamentalmente, il dramma della nostra educazione, è che per quanto cerchiamo
di trasmettere ai nostri figli il meglio di noi stessi o il sedimento più
illuminato della nostra esperienza di adulti nei nostri ricordi di bambini,
trasmettiamo loro anche, inevitabilmente, e del tutto inconsapevolmente, la
parte profonda dei nostri dubbi, delle nostre incertezze, delle nostre
difficoltà irrisolte. Ed è attraverso questo tramite transgenerazionale che le
difficoltà e i problemi dei nostri padri si trasmettono inevitabilmente ai
nostri figli.
Dunque i bambini arrivano a un
certo punto ad avere una configurazione interna sulla possibilità di chiedere
aiuto, che è largamente strutturata e che costituirà, come suol dirsi, una sorta
di filtro pregiudiziale, in un meccanismo che ha purtroppo le sue perversioni
perché il bambino che ha imparato un attaccamento sicuro tende ad affrontare il
successivo ricorso all’adulto con un atteggiamento aperto, franco, disponibile
all’incontro e che facilita quindi quella risposta potenzialmente altrettanto
franca, aperta e di sostegno che rafforza e conferma la sua fiducia, mentre il
bambino con un attaccamento insicuro o disorganizzato si rivolgerà all’adulto in
un modo indisponente o scostante, intriso esso stesso di rabbia o di
disperazione o di difficoltà, che più facilmente eliciterà nella figura di
accudimento una risposta rifiutante che ancora una volta andrà a confermare,
purtroppo, nel bambino il suo atteggiamento di sfiducia nei confronti della
possibilità di chiedere ed ottenere un valido
aiuto.
Questo circolo vizioso ha
apertamente a che fare, ovviamente, con lo strutturarsi nell’ immagine interna
del bambino dell’autostima. Il bambino che ha imparato a fidarsi dell’altro ed
avere un sereno atteggiamento di risposta, da parte dell’altro, avrà una buona
immagine di sé. Il bambino pensa sempre che è merito suo se ha avuto questa
risposta ma, purtroppo e pesantemente, nell’altro caso il bambino che non si
fida e che non ha buone risposte penserà che è lui sufficientemente cattivo,
sufficientemente indegno e sufficientemente incapace da non poter riscontrare la
giusta e serena attenzione dell’adulto.
Noi sappiamo oggi che la struttura
dell’attaccamento permane in qualche modo come modello di base per tutta la
vita, sappiamo che la modalità con cui il bambino divenuto grande incontrerà i
suoi amici, i docenti, la sua ragazza (o il suo ragazzo), la maniera con cui
stabilirà un rapporto di coppia, la maniera in cui successivamente stabilirà un
rapporto con i suoi figli sono fortemente influenzate da questa matrice antica e
arcaica che ci portiamo dentro senza saperlo. Una specie di paio di occhiali da
sole che ci portiamo dentro senza sapere assolutamente che abbiamo gli occhiali
da sole, ma che ci fa vedere il mondo in una maniera colorata, che per noi è la
maniera naturale in cui è e che invece deforma, in qualche modo, secondo i
nostri pregiudizi di sicurezza o di insicurezza, la
realtà.
Certo, la matrice originaria
dell’attaccamento resta peraltro aperta in qualche modo ad essere plasmata,
raffinata e modulata lungo tutto il percorso educativo e più genericamente lungo
tutto il percorso esperienziale della nostra esistenza. Gli studi, per esempio,
che vengono compiuti negli ultimi anni sull’intelligenza emotiva, ci fanno
pensare che esistano possibilità di intervento, che qualche cosa è possibile
modificare. L’educazione e l’esperienza sono potenti motori in grado di
addolcire, cambiare e in qualche modo rendere più vicino alla realtà concreta
dell’esperienza attuale l’antica matrice. Un bambino che ha fatto una pessima
esperienza di attaccamento, all’interno di esperienze di vita che gli consentono
via via di sperimentare sentimenti di sicurezza, diventerà, in qualche modo,
sempre più potenzialmente sicuro: anche se, in un certo senso, pensiamo che la
matrice originaria mantenga una sua caratteristica stabile anche neurologica,
per come viene iscritta nei nostri circuiti cerebrali, relativamente immutabile;
la coloritura di fondo tende ad essere abbastanza sempre la stessa. Però questo,
sia pure non disgiunta da un certo pessimismo per questi dati, apre tuttavia la
possibilità al nostro intervento, al nostro intervento educativo e riempie,
credo, di significato lo stile, la modalità, la dimensione con cui l’intervento
educativo deve essere fatto.
La scuola e la famiglia hanno
evidentemente compiti fondamentali in questa situazione. La prima esperienza che
il bambino fa è quella del suo contesto familiare, la seconda in ordine di tempo
è quella del contesto scolastico e la terza - su cui è certamente più difficile
intervenire - è quella del contesto del gruppo dei pari, della sottocultura al
cui interno, negli ambiti di gioco, di divertimento e negli ambiti di
investimento in senso lato, il ragazzo, divenuto adolescente, si troverà ad
intervenire.
La famiglia ha un ruolo
importante, sappiamo, perché è nella famiglia che si gestisce in qualche modo e
si trasmette, giorno per giorno, non solo la continuativa risposta ai bisogni
del bambino - un atteggiamento, diciamo così, di possibile ascolto nei confronti
della difficoltà esplicita o implicita che il bambino porta nella sua
vicissitudine quotidiana e nel suo confrontarsi giorno per giorno con
l’immensità dei bisogni che la vita quotidiana impone alla sua struttura ancora
inizialmente molto fragile e molto vulnerabile – ma anche la modalità con cui
(ed è questa un’importante lezione della psicoanalisi contemporanea) la
sofferenza quotidiana, l’inevitabile sofferenza della nostra esistenza, viene
tollerata, contenuta, in qualche modo elaborata, invece che evitata. Il problema
che noi sentiamo molto nella cultura contemporanea e di come numerose prassi e
modalità culturali ci impongano di evitare al più presto la sofferenza: l’uso,
per esempio, degli psicofarmaci per essere immediatamente felici o l’immediato
ricorso al farmaco per rimuovere qualsiasi tipo di difficoltà, al di là di un
reale valore sintomatico o farmacologico sono segni generici di una modalità di
pensare che ci attornia e, in qualche modo, ci preoccupa sul fatto che la
sofferenza debba essere espulsa, evitata via dalla nostra vita nel modo più
rapido possibile. La sofferenza, come l’angoscia, come l’inevitabile destino di
morte che ci portiamo dentro, tutti i temi sui quali abbiamo poca voglia di
pensare e sui quali tendiamo rapidamente a mettere sopra la pietra delle
immagini ricche e rutilanti della nostra cultura. Tollerare la sofferenza, quel
qualche cosa che tutti i giorni dobbiamo tentare di fare e che i nostri figli
hanno bisogno di sentire, al di là delle belle parole che possiamo loro
rivolgere nei pistolotti familiari in cui ogni tanto ci esibiamo
…
Così come la scuola, dallo stesso
punto di vista, a cui è stato assegnato nella nostra cultura il compito di
trasmettere non solo cultura ma un senso della crescente personalità del
bambino. Fiorenzo Alfieri che prima di essere assessore è stato, a nostro
avviso, un ottimo pedagogista e un ottimo educatore, parlava qualche anno fa, in
uno dei convegni dedicati alla sicurezza, dell’educazione alla sicurezza,
dell’ottimismo strategico che in qualche modo l’educatore deve avere e assegnava
alla scuola, il compito di trasmettere al bambino, in qualche modo, la sicurezza
di essere e la sicurezza di capire non solo in una prospettiva illuministica,
per cui la comprensione ci renderebbe liberi - perché non basta e lo sappiamo -
ma nel senso di assecondare lo sforzo innato del bambino a costruire, a cercare
quella competenza conoscitiva che tanto lo interessa. E troppo spesso osserviamo
oggi nel sistema scolastico che i nostri ragazzi sono annoiati, non
sufficientemente stimolati e non sufficientemente arricchiti, nel mondo così
complesso in cui ci troviamo a vivere oggi, da stimoli che vengano incontro alla
loro voglia di conoscere e alle specifiche modalità con cui vogliono conoscere.
Certo un po’ desueto rispetto a quello in cui abbiamo imparato noi, ai nostri
tempi, a conoscere.
Resta naturalmente il problema del
gruppo dei pari, un problema complesso in cui il problema della sicurezza e del
suo contrappunto, il problema della violenza e della delinquenza, sono
sicuramente sempre più fonti di preoccupazioni. Beatrice Cannella, con la quale
questa relazione, come ho detto, è stata scritta, si è occupata in questi anni
lungamente di questo problema per esempio studiando nell’ambito del progetto
Itaca della Città di Torino il problema del bullismo, e ha scritto pagine che vi
consiglierei di leggere[5] su come cercare di affrontare
questo dramma che è la violenza all’interno della Scuola, problema che sembra
essere sempre più presente, su come cercare di avvicinare la competenza degli
insegnanti e degli educatori nei confronti del difficile incontro con questi
bambini.
Dunque abbiamo bisogno di
ingegneri che ci aiutino a rendere più sicure le nostre navigazioni Internet,
abbiamo certamente bisogno di imparare ad essere più vicini ai nostri ragazzi
nella misura in cui affrontano la ricchezza del Web che non è solo una
biblioteca, ma è per molti aspetti anche un inferno esemplare della nostra
cultura.
Ma abbiamo anche bisogno in
qualche modo di una iniezione di sicurezza, noi adulti per primi, e dobbiamo
saper costruire tra di noi delle forme di incontro che ci educhino alla
insicurezza, perché la nostra condizione esistenziale è di trovarci in un mondo
continuamente mutevole i cui modelli, stereotipi e mode si susseguono e ci
bombardano. Abbiamo insomma bisogno di saperci aiutare, gli uni con gli altri, a
ricostruire, ogni volta, nelle diverse situazioni, quel barlume di sicurezza che
ci può consentire di andare avanti e di trasmettere qualcosa di buono ai nostri
figli. Grazie.
[1]
Ringraziamo gli organizzatori del convegno, ed in particolare il prof. Tartara,
per averci messo a disposizione la trascrizione del nostro intervento,
consentendoci di introdurre qualche modifica e correzione. Abbiamo peraltro
scelto, per coerenza alla sua originaria formulazione, di lasciare il testo il
più possibile aderente all’esposizione verbale fatta da uno di noi e di non
trasformarlo in un vero e proprio ‘lavoro’ in vista di pubblicazione. [S.M. e
B.C.]
[4]
Si veda all’indirizzo http://europa.eu.int/information_society/eeurope/2005/all_about/security/text_en.htm#eEurope%202005%20Security%20Policies%20in%20Brief.
Utile
ci pare anche la consultazione di Safer Internet all’indirizzo http://europa.eu.int/information_society/programmes/iap/index_en.htm
nel quale reperire l’Action Plan on
Promoting Safer Use of the Internet - INCORE Final
report.
[5]
Si veda, tra gli altri, Aggressori, vittime,
terzi: una prospettiva psicoanalitica di Beatrice Cannella in Snodi. Bullismo e violenza a scuola, Città
di Torino, Progetto Itaca.